- Calciomercato
- Squadra
- Milan Futuro
- Coppe Europee
- Coppa italia
- Social
- Milan partite e risultati live
- Redazione
Claudio Borghi, talentuoso fantasista argentino, approdò al Milan in un momento storico di profonde trasformazioni per la squadra rossonera. Voluto fortemente dal Presidente Silvio Berlusconi, che intravedeva in lui il potenziale per illuminare San Siro con estro e fantasia, il suo passaggio in rossonero fu però brevissimo e privo di vere soddisfazioni sul campo.
Il vero ostacolo fu rappresentato da una visione del calcio difficilmente conciliabile con quella dell’allora nuovo allenatore, Arrigo Sacchi. Il "profeta di Fusignano", fautore di un calcio totalmente organizzato, corale e ossessivamente strutturato, in cui ogni giocatore aveva compiti ben definiti, faticava a trovare spazio per un talento tanto geniale quanto anarchico come Borghi. Questo portò l’argentino rapidamente ai margini del progetto e, nella stagione successiva, al prestito al Como.
Più che per le sue giocate in maglia rossonera, Borghi è ricordato come simbolo di quella frattura iniziale tra il collettivo metodico di Sacchi e l’estetica imprevedibile dei fantasisti degli anni ’80 e ’90. Uno scontro affascinante tra la visione romantica del Presidente Berlusconi e l’idealismo innovativo di Sacchi.
In una piacevole intervista alla Gazzetta dello Sport, Claudio Borghi ha ripercorso la sua esperienza al Milan e non solo.
Ecco un estratto con le dichiarazioni più importanti rilasciate dall'ex Milan.
Borghi, l’8 dicembre del 1985, allo stadio di Tokyo, il suo Argentinos Junior sfidò la Juventus nella finale della Coppa Intercontinentale. Lei giocò una partita meravigliosa, perse la coppa, ma vinse il Milan.
«Platini quel giorno disse che ero il Picasso del calcio. Il Milan l’anno dopo comprò il mio cartellino, c’era anche la Juventus che mi voleva. Passò del tempo e nella primavera del 1987 arrivai finalmente a Milanello. Berlusconi mi coccolava, mi spiegò che stava per nascere una squadra fortissima, anzi la più forte di tutti i tempi».
Ma in quella squadra per lei non c’era posto.
«Mi prendo le mie colpe, forse ero troppo giovane, avevo 22 anni, non ero abituato al calcio italiano, allenamenti compresi. Avrei avuto bisogno di un po’ di tempo. All’epoca si potevano tesserare due stranieri, c’erano già i due inglesi, Wilkins e Hateley. Il Milan nell’estate del 1987 mi girò al Como. Ma era una squadra che pensava solo a difendere, non mi intendevo con gli allenatori, prima Agroppi e poi Burgnich, giocai poco, non riuscivo a ingranare».
Intanto ai club italiani venne data la possibilità del terzo straniero.
«Era andato via Liedholm, mi ero allenato con Capello, di cui ho ancora un bellissimo ricordo: mi fu molto vicino. Con lui giocai il Mundialito. Poi arrivò Sacchi e il Milan prese Gullit e Van Basten».
E Sacchi poi volle Rijkaard, mentre Berlusconi gli suggeriva, diciamo così, di tenere lei.
«Sacchi aveva le sue idee, era giusto. La mia avventura in Italia finì là. Si fece avanti la Sampdoria di Vialli e Mancini, mi sarebbe piaciuto giocare con loro. Ma Berlusconi non voleva cedermi a un club italiano, così mi diede in prestito al Neuchatel, in Svizzera. Rimasi un anno, poi pensai che era meglio tornare in Sudamerica e firmai per il River Plate. Poi ho girato il mondo: Argentina, Italia, Svizzera, Cile, Brasile, Messico. Conosci le culture, la gente, i luoghi: è una fortuna».
Nel 1986 lei era nella rosa dell’Argentina che vinse la Coppa del Mondo in Messico. Da dove lo vide il gol della “Mano de Dios” agli inglesi?
«Dalla panchina e, giuro, non mi accorsi di niente. Ma se tu riguardi le immagini, vedi Diego che corricchia verso la bandierina e volta la testa per vedere cosa fa l’arbitro. Sa quello che ha fatto, per cui aspetta di avere la certezza che l’arbitro non ha visto niente. Tutti pensano che la partita più dura sia stata quella con l’Inghilterra o la finale con la Germania, invece è stata la semifinale con il Belgio: erano fortissimi, li temevamo».
Tolto Maradona che stava su un altro pianeta, quali sono stati i più forti con cui ha giocato?
«Maldini e Van Basten. Paolo era più giovane di me, ma aveva una sicurezza impressionante quando giocava. Ed era bello (ride). Bello e fenomeno, cosa pretendere di più? Van Basten era solo da ammirare a bocca aperta».
© RIPRODUZIONE RISERVATA