Informazione sportiva tra cliché e narrazione: il caso “ds sbandierato”.
C’è un certo stile che si va diffondendo, sottile ma pervasivo, in certa stampa sportiva italiana: quello del “retroscena per vocazione”, del titolo ammiccante, dell’editorialista che più che informare vuole insinuare. È così che ormai da mesi ci viene riproposto, con cadenza quasi liturgica, lo spettro del “ds sbandierato dal Milan”. Una formula che ormai pare più un esercizio di pigrizia narrativa che un’analisi strutturata.
Criticare l’operato di una società sportiva è non solo legittimo, ma spesso necessario. Farlo però brandendo cliché vuoti, ripetendo formule logore, è ben altra cosa. “Sbandierato”: il termine è già un giudizio, una condanna preventiva che insinua superficialità, propaganda, forse persino malafede. Ma di cosa stiamo parlando? Di un dirigente in arrivo? Di un piano industriale fragile? O del semplice fatto che, in mancanza di notizie reali, bisogna comunque riempire colonne?
Il Milan, piaccia o no, ha intrapreso un percorso chiaro: giovane, internazionale, orientato alla sostenibilità economica e alla valorizzazione del talento. Questo progetto può piacere o meno, ma è coerente. Che si possa criticare la tempistica o la comunicazione è lecito; che si scelga invece di ridicolizzarlo a colpi di formule preconfezionate è solo sintomo di scarsa fantasia – o peggio – di malizia travestita da giornalismo.
Serve un’informazione sportiva che torni a distinguere tra cronaca e teatro. Non servono più “sbandieramenti”, ma analisi. Non servono più battute, ma responsabilità. La realtà del calcio moderno è complessa: semplificarla per fare rumore non è solo un errore professionale. È un tradimento culturale.