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Analizzare la figura di Adriano Galliani significa attraversare un capitolo intero della storia del calcio italiano. Non solo perché per oltre trent’anni è stato il volto operativo del Milan, ma anche perché ha saputo interpretare, spesso anticipandole, le trasformazioni di un sistema in continua evoluzione.
Il legame con Silvio Berlusconi fu la chiave di tutto: il presidente offrì la visione, Adriano Galliani la tradusse in gestione quotidiana, divenendo il demiurgo. In questa complementarità nacque il Milan che dominò il calcio mondiale tra la fine degli anni Ottanta e la prima metà dei Duemila. Le 5 Champions League e gli 8 scudetti conquistati sotto la sua regia non furono soltanto frutto di campioni straordinari, ma di un modello societario snello che univa equilibrio finanziario e audacia manageriale.
Il soprannome di “Condor” fotografa bene la sua abilità nelle trattative: rapido, silenzioso, capace di calare l’asso quando tutto sembrava già deciso: prima Desailly e poi Nesta poi insegnano. Lui stesso amava ripetere:
«Io non dormo mai durante il calciomercato. Aspetto l’ultimo giorno, l’ultima ora, l’ultimo minuto: lì spesso si fanno gli affari migliori».
Una filosofia che lo rese protagonista di colpi clamorosi, come l’arrivo del tandem Zlatan Ibrahimović e Robinho nel 2010, o quello meno celebrato, ma ad ogni modo decisivo per conquistare l'ultimo trofeo della sua gestione (la Supercoppa italiana a Doha il 23 dicembre 2016), di Jack Bonaventura dall'Atalanta nell'agosto 2014.
Ma ridurre Adriano Galliani a un semplice uomo di mercato sarebbe riduttivo. La sua influenza si estese ai tavoli della Lega Calcio, dove fu mediatore instancabile, spesso ago della bilancia nei momenti più delicati della governance del pallone italiano, i marosi di Calciopoli su tutti. Amava ricordare il valore delle istituzioni con una battuta diventata quasi un motto:
«Io sono un democristiano del pallone: cerco sempre di tenere insieme tutti».
La parabola post-Milan conferma la sua cifra personale. Accettare la sfida Monza non fu solo un ritorno romantico nella città natale, ma anche la dimostrazione che il metodo Galliani poteva adattarsi a ogni contesto: programmazione, rapporti solidi, pragmatismo. Non a caso, all’approdo in Serie A del club brianzolo nel 2022, commentò con emozione:
«Per me il Monza in Serie A vale più delle Champions vinte col Milan. È il sogno della mia vita».
Adriano Galliani resta dunque una figura centrale per comprendere la dirigenza calcistica italiana. Non un visionario, ma un interprete fedele e astuto; non un innovatore radicale, ma un manager capace di sopravvivere e incidere in un mondo in cui la politica e lo sport spesso si confondono. La sua eredità non si misura solo nei trofei, ma anche nella capacità di sintetizzare la propria carriera in una frase che lo accompagna da sempre:
«Io non sono il Milan. Io sono del Milan».
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