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Chi era Marco Van Basten?
“Tra qualche centinaio di anni una nuova civiltà rovisterà tra le rovine, alla ricerca dei fatti e dei nomi di quelle passate. È probabile che gli storici si imbatteranno in nomi di artisti, politici, astronauti e anche sportivi, ma non sempre sarà facile collocarli con certezza. Per esempio, Marcello da Utrecht, classificato come olandese, di conclamate doti artistiche. Pittore? Un atleta di uno sport chiamato calcio? Riusciremo mai a fargli sapere che è stato tutti e due?”.
Federico Buffa apre così il suo racconto dedicato a Marco van Basten: un concentrato di grazia, merce non così diffusa sui campi da calcio, e parallelamente pittore o, se preferite, poeta tormentato come Baudelaire, con i guai fisici che non era possibile dimenticare con un sorso di liquore e che lo hanno sempre perseguitato lungo il sentiero tortuoso della vita, lasciando poi in bocca un sapore amarissimo, quasi di assenzio, fatto del senno del poi e di periodi ipotetici che il calcio non si meritava affatto.
Se non fosse stato costretto ad appendere le scarpe al chiodo a soli ventinove anni, probabilmente ora ci attenderebbe un compito ancora più arduo. Rendere il giusto merito alle gesta sportive del ‘cigno di Utrecht‘ è tanto impossibile quanto quella rete, anzi, la rete all'URSS quel pomeriggio d’estate 1988.
C'era una volta, verrebbe da dire: stiamo parlando, dopotutto, di un cigno, no? Ma raccontiamo una fiaba e non una favola. Il lieto fine non c'è anche se lo vorremo dal profondo del cuore. Le fiabe stanno lì sullo scaffale della mente per farci provare empatia verso i personaggi, per farci capire com’è che va la vita, per avvertirci. Per dimostrare che non è come sostengono le favole, la morale non è obbligatoria. L’esistenza è fatta di gioia ma anche di dolore, spesso insensato.
Il dolore, l’eterno compagno di Marco Van Basten. Un uccellaccio nero sulla spalla come in un personaggio di Capitan Harlock. A volte un semplice fastidio, in altri frangenti una sensazione lancinante, che non ti permette neanche di poggiare i piedi a terra. E per Marco, che con i piedi porta a casa la pagnotta, esprimendo calcio sotto forma di pennellate, non può essere un problema come un altro. E allora meglio una pausa, che poi diventano due, tre, quattro e che sommate fanno dei mesi, poi anni. Sabbia che scorre nella clessidra. Tempo che nessuno ridarà mai a lui e, soprattutto, al calcio.
È un punto delicato la caviglia, anche per chi è leggiadro e sembra avere dipinta sul volto un’espressione distaccata, rivolta verso un eterno altrove. È un punto delicato la caviglia anche per un atleta che quando si ritrova il pallone tra i piedi sembra volteggiare sulle note di un'orchestra sinfonica. Van Basten, infatti, non era semplice virtuosismo. Il fisico dinoccolato ha sempre tratto tutti in inganno: dovrebbe essere sgraziato come un anatroccolo ed invece è bello e coordinato come un cigno. Ma il cigno è animale fragile. Le sue ali a volte si spezzano. Eppure non è arrendevole, è un po’ ombroso, non si limita a sopravvivere, ma si staglia nel blu prima di gettarsi in picchiata e, tra una piroetta e l’altra, dare un’occhiata al mondo mentre lui, lì in alto, vola. L’aureo mezzo tra il pragmatismo e la necessità tutta umana di scorgere della bellezza in ciò che si fa o in ciò che si osserva.
Il cigno vola, come quella palla un po’ sbilenca e fuori misura che arriva sul piede di Marco Van Basten quasi senza pretese, in un pomeriggio di giugno di tanti, troppi anni fa sul prato verde dello Stadio olimpico di Monaco di Baviera. Terra ostile la Germania per chi è cresciuto all’ombra dei tulipani. Il sogno di un’infanzia intera si era proprio infranto lì, in quello stadio. Un sogno nato in un minuto e mezzo e svanito in novanta. Marco, in ogni caso, e con lui tutti i suoi coetanei, se la ricorda a menadito quella ragnatela di passaggi, che aveva portato al rigore dell’uno a zero.
È, ormai, una filastrocca, una nenia che si sussurra ai bambini per farli addormentare. E Marco la ripete tra sé e sé a mentre la sfera scende tanto dolcemente quanto la voce di una mamma mentre culla un neonato. “Ci vuole molto coraggio” - canterebbero gli Ex-Otago. Ma qualcuno deve pur vestirsi da Icaro, deve pur farsi spuntare un paio di ali sulla schiena. Deve pur osare, a costo di inimicarsi gli dèi.
La sfera pare quasi esplodere, quando impatta con il piede destro di Van Basten. Dentro quel calcio c’è tutto, c’è la storia calcistica d’Olanda di ieri, oggi e domani. C’è l’inutile gol di Neeskens di quattordici anni prima, c’è l’urlo di Resenbrink strozzato da un palo argentino, c’è, Marco non può ancora saperlo ma ne siamo certi, il pianto amaro di Sneijder a Johannesburg. C’è l’ira degli eterni incompiuti, di quelli che per ottenere il minimo devono sempre vestire i panni di Ethan Hunt. E la Mission Impossible qui è tutta nella posizione da cui Marco scocca il tiro, troppo defilata per combinare davvero qualcosa.
Ma lui sente sulla pelle che è il momento giusto, l’attimo in cui tutti gli astri possibili si allineano e calcia, più forte di quanto abbia mai fatto, in maniera così perfetta che scavalca il portiere e finisce in porta sul palo più lontano, con una traiettoria che solo un abilissimo artista del calcio può disegnare con tanta grazia e facilità. Un colpo quasi da trequartista, da giocatore che trova traiettorie e spazi impossibili da vedere per occhi umani, ma categorizzare Marco Van Basten è a dir poco impossibile. Ed il pallone ruggisce, proprio come il leone che ha sul petto. Almeno per una volta, l’Olanda può vincere.
Vincere è quello che si legge alla voce professione sulla carta d’identità di Marco Van Basten. E Marco non lo fa da semplice gregario. Van Basten è uno di quelli che i pargoli vogliono emulare, quello che anche le nonne che non sanno neanche come è fatto un pallone hanno sentito nominare almeno una volta. Marco Van Basten è il calciatore più forte d’Europa, anzi, del mondo intero. In una eterna e ferina lotta per la supremazia calcistica, il cigno venuto dalla terra strappata all’abbraccio del mare combatte lancia in resta con il torello della pampa, una, dieci, cento, mille volte. E noi tutti lì intorno a guardare, a chiederci chi dei due getterà nella polvere l’altro, chi trascinerà i suoi al trionfo, chi potrà alzare le braccia al cielo mentre l’altro trattiene le lacrime amare.
Lacrime: Marco le conosce bene. Lacrime sue, lacrime nostre quando annuncia che è finita. Lacrime di tutti quelli che in questo nostro peregrinare sulla terra hanno messo anche solo un frammento di anima nel vedere un pallone rotolare su un campo da calcio a forza di pedate più o meno educate. La caviglia non regge, procrastinare non è più possibile. Si è già provato abbastanza. Due anni di calvario totalmente inutili. E si grida e sempre si griderà all’ingiustizia e alla sfortuna, come poveri calimeri.
Ma come è possibile che a trent’anni appena compiuti uno dei migliori calciatori di tutti i tempi debba appendere gli scarpini al chiodo. Come si fa ora che il cigno non volerà più? È così che il vuoto ci pervade. Una privazione improvvisa e irreparabile. La presa di coscienza che qualcosa c’era e che ora, di colpo, non tornerà più. La maglia numero sedici e l’intramontabile nove, le coppe, persino i Palloni d’Oro perdono di significato quando diventano passato. Ogni ricordo ferisce il cuore. Siamo tutti sottosopra.
Sottosopra proprio come Il Cigno di Utrecht ha visto il mondo una sera novembrina. È il 1992, quella stramaledetta caviglia ha deciso di interrompere la tregua per il Cigno e fa male ormai da tanto, troppo, eppure lo speaker del Meazza annuncia Van Basten tra i titolari. E non si nota alcuna sofferenza sul viso di Van Basten, impenetrabile come al solito, non si può neanche lontanamente immaginare che le cose siano così, perché tra quelle zolle dure come pietre per il gelo meneghino e per un fungo, Van Basten, come al solito, si muove leggero ma letale, "vola come una farfalla, pungi come un’ape” disse qualcuno.
Sembra quasi più un felino che un cigno. Ma le ali ce l'ha, lo sa Marco e lo sappiamo noi, che non ci meravigliamo più di tanto quando si stacca da terra come se fosse sulla luna e decide che l’unico modo possibile per colpire quel pallone arrivato al limite dell’area è proprio quello lì, la chilena, o la rovesciata se preferite. E rischia, perché le caviglie malandate sono due. Certo, la sinistra più della destra, ma anche l’altra lo ha fatto soffrire. Ora, si è aggiunto anche il ginocchio. Il corpo di Van Basten ha gridato per tutta la sua carriera: “Marco, arrenditi, non sei fatto per volare!” Ma come, non l’ape, ma il famoso calabrone, lui non lo sa e vola ugualmente, cadendo anche con stile.
O forse lo sa, convive con la coscienza della sua fragilità, ma non per questo ritrae la gamba. E allora Marco salta, va a contrasto, dribbla, evita interventi da macellaio, si getta a capofitto in una selva di pedate e colpi proibiti, tutto per poter alzare le braccia al cielo e sentire l’urlo di San Siro, il canto rossonero di Smaila, per sapere che anche questa volta ce l’ha fatta, che la sua forza ha avuto di nuovo la meglio sulla sfortuna e l'ineluttabile. I suoi antenati hanno lottato contro la marea, si sono guadagnati il futuro. Nessuna voglia di abitare ad Atlantide. Marco Van Basten, nel suo piccolo, quella lotta la ripete ogni giorno, per dimostrare a se stesso e agli altri che l’unico limite è nella testa. “È tutto qui” - come amava ripetere Bjorn Borg.
Con la testa Van Basten segna, e tanto. Ma ci gioca anche. E non potrebbe essere altrimenti, dato che il suo Maestro gliel'ha inculcato sin da quando ha vestito la maglia dell’Ajax. L’importante non è correre tanto, ma correre bene. E’ il pallone che deve sudare. Probabilmente Cruijff l’ha anche sussurrato a Marco quando, nell’ormai lontano 1981, l'ha abbracciato e gli ha lasciato il posto in campo nel giorno del suo esordio tra i grandi. Chissà quante volte Marco se li è ripetuti in testa quei piccoli grandi mantra. "Il pallone è uno solo, ed è meglio che ce l'abbia tu". "Se cominci a correre un attimo prima degli altri sembrerai più veloce". E soprattutto: "Devi essere in grado di capire in anticipo cosa sta per accadere. Solo così potrai essere sempre al posto giusto nel momento giusto".
Trecento volte più una, ecco quante volte Van Basten si è trovato esattamente dove doveva essere. Ma è ingeneroso metterla su questo piano, perché, proprio come quando parliamo di un altro attaccante della storia rossonera con cui Van Basten condivide questo feeling, chissà in quanti casi il momento giusto Marco l'ha creato da solo. L’espressione “fiuto del gol” gli si addice, certo, ma non può spiegare in toto il calciatore. L’attaccante totale, dicono. E con ragione.
Per i canoni odierni Marco sarebbe un nove classico, difficile immaginarlo a rincorrere l’avversario nella sua metà campo. Eppure nel suo modo di intendere il calcio, la giocata non è mai fine a se stessa, ma votata ad un risultato, a qualcosa di concreto. E se una volta ricevuta la sfera è difficile (ma non impossibile) vedere Marco Van Basten scambiarla con un compagno, e qui è differente da quell'attaccante che nominavamo poc'anzi, non è per egoismo, ma semplicemente perché, novantanove volte su cento, quel risultato, chi ha quel cognome sulle spalle, lo ottiene.
Viene da chiedersi quale altro obiettivo avrebbe potuto raggiungere se il suo corpo avesse retto, lo avesse coadiuvato a dovere. Tre Palloni d’Oro possono sembrare pochi nell’era dei due alieni. Ma quei due sono così superiori agli altri che non sanno cosa sia davvero la competizione. Non hanno idea di cosa significhi dover risplendere in un calcio in cui hai possibili pretendenti all'ambito premio tra le mura amiche. Uno fa di cognome Gullit.
E assieme a Ruud, e a Frank, a Paolo e a Franco, talmente inscindibili da diventare quasi un essere mitologico mezzo Maldini e mezzo Baresi, Marco van Basten vince tutto quello che si può vincere, anche con la sapiente e rivoluzionaria guida di Arrigo Sacchi. E concedi anche il bis, perché nel calcio la cosa più difficile è riconfermarsi. C’è tanto di Marco in ogni trionfo di quel Milan, dal colpo di testa in tuffo contro il Real alla doppietta contro la Steaua, dall’assist per l’amico Frank al Prater di Vienna fino alla rete al San Paolo che nel 1988 manda il Diavolo in estasi, ma che a Tutto il CalcioEnrico Ameri non vede, gridando alla traversa.
È paradossale, forse un po' comico, ma per uno dei giganti della storia rossonera, purtroppo, c’è anche un posticino all’inferno. Un inferno tutto suo, personalissimo, vissuto con la compostezza del campione e con la tenacia di chi non si vuole arrendere. Tante, troppe operazioni, luminari che non sanno che pesci prendere, macchinari alla Saw per la cura al nanismo, stop infiniti e ritorni troppo brevi, fino alla sofferta decisione di smettere.
Tra l’ultima partita in maglia rossonera, la sfortunata finale di Coppa Campioni '93 contro il Marsiglia, che tra l’altro giochi in condizioni disastrose, e il canto del cigno passano due anni. E non c’è giorno in cui una processione interminabile di persone non faccia capolino in quel di Milanello a chiedere di Marco, a cercare di dargli forza, mentre lui, davanti allo specchio della sua stanza, probabilmente comincia a rendersi conto che la forza da sola non basta più. "Come sta Marco? Quando torna Van Basten?" - non sono semplici interrogativi, ma piuttosto il lamento straziante di una generazione che capisce che il destino gli sta strappando via il suo eroe, il suo Prometeo che con la fiamma ha rischiarato prospettive calcistiche fino ad allora inesplorate.
Ma anche nell'insensato momento del ritiro, nella tristezza dei tanti che hanno dovuto ripiegare i poster appesi ai muri e relegare le tue gesta nella gloriosa e malinconica cineteca dei ricordi, resta la fortuna di aver potuto ammirare la classe immensa di Marco Van Basten. Se questa è davvero una fiaba, allora Andersen insegna. Non importa che sia nato in un recinto di anatre: l’importante è essere uscito da un uovo di cigno.
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