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- Redazione
di Andrea Bosco -
Sono lontani i tempi in cui il Milan, pur non vincendo tanti campionati, dominava in Serie A. Dallo scudetto del 2022 in poi, i rossoneri hanno collezionato un quinto posto (mascherato dalla penalizzazione della Juventus), un secondo posto (sporcato dal -19 sull’Inter) e, ad oggi, un ottavo posto che profuma di un fallimento doloroso ma, in gran parte, annunciato. Sono stati tanti i segnali che facevano intuire come quest’anno sportivo sarebbe stato tormentato e in salita. Un destino – quello del Diavolo – già scritto da scelte e decisioni a dir poco scellerate, nella visione e nella modalità.
Inizia tutto la scorsa estate. Nonostante la possibilità di poter prendere Antonio Conte, Roberto De Zerbi e Massimiliano Allegri – non cito Jurgen Klopp perché inaccessibile per costi e progetto – la dirigenza rossonera decide di virare prima su Julen Lopetegui (boicottato dalla tifoseria) e dopo su Paulo Fonseca. Un errore madornale se consideriamo che un po’ tutti, anche i più ottimisti, non ci avrebbero messo un secondo a scegliere uno dei primi tre; sia per una questione di blasone (Conte e Allegri), sia per un senso d’appartenenza che al Milan manca da tempo (De Zerbi). L’annuncio di Fonseca ha rappresentato il primo tassello di una percezione preoccupante nei confronti della stagione che stava per iniziare.
Preoccupazione che si è subito trasformata in certezza già dopo le prime tre partite di campionato. Pareggio all’ultimo minuto contro il Torino, sconfitta a Parma e pareggio contro la Lazio, in quella che viene ricordata come la partita del famoso cooling break, dove Theo Hernandez e Rafa Leao si estraniarono da tutto il gruppo. Una scena deprimente per chi ama e conosce il valore dello spogliatoio e dello sport. Un “non evento” come quello di Firenze, quando Theo Hernandez prima e Abraham dopo decidono di scavalcare ogni gerarchia sui calci di rigore, lo stesso Theo poi si fa espellere, Tomori commette un’ingenuità incomprensibile e Fonseca si rende autore di un post partita
tutt’altro che sereno. Poi il 3-3 di Cagliari dopo l’impresa di Madrid, i diversi errori tecnici dei singoli contro l’Atalanta e la Stella Rossa, e infine il discutibile esonero di Fonseca, con l’allenatore a comunicare la separazione ancor prima che lo facesse la società.
Arriva Conceicao, il Milan vince la Supercoppa Italiana ma, col senno di poi, si è trattato di un semplice fuoco di paglia. Il diavolo crolla nuovamente, con Maignan che regala al Cagliari il gol del pareggio, Musah si fa espellere contro la Dinamo Zagabria (gara valevole per l’accesso diretto agli ottavi di Champions League), Maignan si rende autore di un altro errore a Rotterdam, Theo Hernandez si fa
espellere per doppia ammonizione contro il Feyenoord, mentre due errori dei singoli regalano la vittoria al Torino. E si arriva a ieri, con il Milan a sprecare l’ennesimo match point in chiave Europa, dicendo probabilmente addio alla possibilità di entrare in Champions il prossimo anno.
Insomma, segnali evidenti di una stagione compromessa già da un pezzo. Adesso è facile puntare il dito contro Sergio Conceicao, com’era facile prima indicare Fonseca come l’unico responsabile. Le colpe sono di tutti: dei calciatori che non si impegnano e che scendono in campo svogliati e senza un briciolo di ambizione, delle scelte dirigenziali, e di un ambiente a Milanello contaminato da fattori esterni e situazioni mai risolte. La sensazione è che a questa società mancano ordine, regole, rispetto dei ruoli e quel sano equilibrio atto a far funzionare ogni meccanismo. Esonerare Conceicao sarebbe un inutile errore. Bisogna sputare fuori tutto l’orgoglio e la dignità rimasta fino a maggio, ripensare agli errori commessi e programmare la nuova stagione, questa volta, come Dio comanda. Preferibilmente affidando il Milan
ad una colonia di italiani che conoscono le insidie del calcio di casa nostra, ponendo loro il giusto rimedio.
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