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C’è un fenomeno curioso che si sta diffondendo nel mondo dell’informazione sportiva: redazioni che sembrano più curve che studi giornalistici, dove il microfono è usato come megafono e la critica è trattata come un fallo da espulsione diretta.
Alcuni spazi – molto seguiti, molto rumorosi – hanno scelto una linea editoriale chiara: tutto ciò che mette in discussione il verbo della tribuna viene bollato come lesa maestà. Gli allenatori devono obbedire, i dirigenti giustificarsi, i calciatori inchinarsi. E guai a chi, nel frattempo, prova a fare un’analisi un po’ più complessa di un "forza ragazzi" gridato in caps lock.
Il dibattito, in questi contesti, ha la stessa profondità di una chat post-partita al bar, ma con la presunzione di chi crede di stare riscrivendo le pagine della critica sportiva. E allora via con il melodramma, con il complotto, con le conferenze stampa smontate frase per frase come se fossero dossier della CIA.
Il bello è che tutto questo viene spesso spacciato per “voce del popolo”. Ma il popolo, in genere, ascolta per capire. Da alcune parti invece si urla per non ascoltare.
A volte vien da chiedersi se dietro certi microfoni ci sia un giornalista… o semplicemente un ultras con connessione Wi-Fi.
E qui è bene ricordarci una cosa semplice, ma fondamentale: noi facciamo i giornalisti. Non siamo lì per tifare, né per provocare, né per insultare. Siamo lì per raccontare, spiegare, approfondire. E, anche solo per rispetto del mestiere che facciamo, noi – per dire – a lavoro non blateriamo. E se lo facessimo, almeno non lo spacceremmo per approfondimento.
Essere giornalisti sportivi significa analizzare una sconfitta con lucidità, anche quando brucia. Significa dare merito agli avversari, anche quando ci costa. Significa — soprattutto — non alimentare odio, tensioni o rivalità tossiche solo per far crescere clic o ascolti.
Il tifo è una componente umana, inevitabile. Ma il giornalismo è una professione. E la credibilità è l’unica Coppa dei Campioni che dobbiamo e possiamo vincere.
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